Archiviato il tema del reddito di cittadinanza tramite laconici SMS inviati dall’INPS per informare i percettori che tale misura di sostegno al reddito terminava definitivamente il 31 agosto, la Presidente del Consiglio Meloni è ora impegnata a convincere l’opinione pubblica che il salario minimo non è una misura nell’agenda del Governo perché non risolverebbe il problema del cosiddetto lavoro povero, che, poi, secondo i dati pubblicati dall’INPS il 13 settembre 2023, impacchettati ad arte dal nuovo vertice a supporto delle “ragioni” del Governo, sostanzialmente non esiste, in quanto, secondo la lettura distorta dei dati INPS, solo una platea di circa 20 mila lavoratori si collocherebbe nell’area del lavoro povero.
Non importa che nel 2022 l’ex Presidente dell’INPS Tridico dichiarava che i lavoratori con retribuzioni sotto i 9 euro ammontavano ad oltre 4 milioni, inoltre che, l’ISTAT, nel corso di un’audizione in Parlamento a luglio scorso, stimava che «i rapporti con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi coinvolgono circa 3 milioni di lavoratori», oppure che uno studio della fondazione dei consulenti del lavoro di luglio 2023, ha evidenziato che un terzo dei Ccnl siglati da Cgil-Cisl-Uil prevede minimi salariali sotto dei 9 euro l’ora. Leggendo i dati della relazione, e non solo le conclusioni, la realtà che emerge è ben altra. L’Inps calcola in 16.338 euro la retribuzione annua lorda (il 60% della retribuzione mediana), la soglia sotto la quale è da considerarsi il lavoro povero. La soglia calcolata dall’INPS equivale a un reddito mensile netto attorno ai 1.000 euro, un reddito che certamente non può essere considerato «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» come disposto dall’art. 36 della nostra carta costituzionale. Una soglia elaborata in forma astratta con la quale si vorrebbe cancellare la reale condizione di indigenza a cui sono costretti milioni di cittadini unitamente alle loro famiglie Per ridurre i numeri del lavoro povero ai minimi termini, l’Inps ha escluso dal conteggio i lavoratori dipendenti del settore agricolo, che occupa 1 milione di addetti, per i quali nel 2022 la retribuzione media complessiva (considerando tutti i redditi percepiti anche quelli extra agricoli) si attestava poco sopra i 10 mila euro l’anno; colf e badanti, 894 mila addetti, che percepiscono redditi medi ancora inferiori; i lavoratori con contratti part-time “involontari”, gli apprendisti, i discontinui, gli stagionali. Oltre l’esclusione d’ufficio dalla conta, ovviamente, di tutti i lavoratori dipendenti a cui viene erogata una retribuzione oraria comunque sotto i 9 euro, pur superando di poco la soglia di lavoro povero definita dall’Inps.
La cancellazione del reddito di cittadinanza e il rifiuto di intervenire sul salario minimo e sul lavoro povero, rappresentano i diversi tasselli di una unica strategia, con la quale il Governo Meloni intende mantenere sotto ricatto lavoratori e classi sociali meno ambienti, al fine di garantire alle imprese forza lavoro a basso costo e sempre disponibile. Una strategia che, purtroppo, per ora non sta trovando ostacoli reali. Secondo i dati Inps, negli anni precedenti al 2023 il RdC ha rappresentato un sostegno per circa un milione e 160 mila famiglie, contro la sua cancellazione era ipotizzabile, oltre che auspicabile, l’esplosione di un conflitto sociale diffuso, anche spontaneo, che però non si è verificato. A parte diverse importanti manifestazioni che si sono svolte in Campania, in Calabria e nel Lazio.
Al contempo i progetti di legge sul salario minimo e i percorsi di lotta annunciati dalle cosiddette forze di opposizione, politiche e sindacali, sono prive di qualsiasi credibilità. Come non tener conto che queste forze, PD e Cgil in testa hanno piena responsabilità, al pari di quelle oggi al governo del Paese, per quanto avvenuto nel mondo del lavoro negli ultimi 30 anni, con l’approvazione di tutte le peggiori riforme del mercato del lavoro con le quali è stato esteso a dismisura il lavoro precario e, quindi, il lavoro povero. Il progressivo smantella mento di tutte le tutele in favore del lavoratore part-time, l’introduzione del lavoro in affitto, la progressiva liberalizzazione dell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato. Le riforme delle pensioni e il tentativo di scippo del TFR dei lavoratori in favore dei Fondi pensione privati con il metodo truffaldino del silenzio assenso. Come dimenticare la cancellazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, prima con Riforma Fornero e poi per mano Renzi, allora segretario del PD. Senza contare l’insufficienza della proposta dei 9 euro l’ora, sia perchè non appare specificata la composizione del valore (ad esempio la Fondazione dei consulenti del lavoro calcola i 9 euro tenendo conto dei ratei delle mensilità aggiuntive e del TFR, non si registrerebbe alcun miglioramento rispetto ai livelli salariali dei contratti peggiori attualmente vigenti), sia perché nell’interpretazione più favorevole per i lavoratori, i 9 euro sono in ogni caso insufficienti per garantire un reddito dignitoso, tento anche conto dell’impennata dell’inflazione di questi ultimi anni, e l’assenza totale di una previsione di un salario minimo mensile, al fine di stoppare l’abuso da parte dei datori di lavoro dei contratti part-time.
E’ forse opportuno e necessario, quindi, allargare il percorso “ci vuole un reddito” che ha sperimentato, giustamente, una alleanza sociale tra diverse realtà di lotta, territoriali e sindacali, attorno alla difesa del reddito di cittadinanza e che ora deve proseguire estendendo la piattaforma alla difesa del potere di acquisto dei salari, per rivendicare non solo il salario minimo ma anche aumenti contrattuali dignitosi, collegandoli con le lotte per il diritto al reddito, alla casa, alla salute, a servizi sociali gratuiti. La scommessa deve essere connettere i tanti piccoli conflitti che nascono nei luoghi di lavoro e nei territori, al fine di contrastare fattivamente in forma unitaria, la precarietà e il lavoro povero, nei luoghi dove questi si manifestano e nelle forme con cui si manifestano. Evitando, però, inutili attraversamenti di manifestazioni che hanno obiettivi di mera campagna elettorale o di autorappresentazione fine a sé stessa.
In particolare, se si vuole contrastare efficacemente il lavoro povero e rivendicare rinnovi contrattuali dignitosi è necessario sperimentare percorsi di lotta, ad esempio, finalizzati a contrastare fattivamente la logica degli appalti, nella Pubblica Amministrazione e nel settore privato. Dove vi sono appalti vi è normalmente lavoro povero. Il sistema degli appalti è stato utilizzato nei decenni scorsi come un grimaldello per frammentare e scomporre la forza lavoro, favorendo una corsa verso il basso delle retribuzioni. Negli appalti vi è la massima concentrazione di sfruttamento del lavoro e di retribuzioni, orarie e mensili, sotto la soglia di povertà. Negli appalti del Ministero della Giustizia, ad esempio il personale in appalto svolge per conto di consorzi privati le attività di fonoregistrazione e trascrizione delle udienze dei processi penali e civili. I lavoratori, contrattualizzati con rapporti di lavoro part-time, svolgono da decenni una funzione altamente professionale ed essenziale per il corretto svolgimento del processo ma percepiscono retribuzioni orarie e mensili abbondantemente al di sotto della soglia del lavoro povero. Ora, con l’avvio della riforma Cartabia, il ministero della Giustizia dopo anni di ingiusto sfruttamento progetta di sostituire i lavoratori precari con l’applicazione dell’Intelligenza artificiale e l’’uso di personale interno. A luglio scorso i lavoratori sono scesi in sciopero a livello nazionale per rivendicare l’internalizzazione delle attività, la giusta retribuzione e il riconoscimento professionale.
Negli appalti della Sanità il personale in appalto svolge per conto di aziende private le attività di tipo amministrativo in condizioni di totale discriminazione. I lavoratori, contrattualizzati nella quasi totalità con rapporti di lavoro part-time, svolgono da decenni attività amministrative negli uffici e negli sportelli CUP per la prenotazione delle prestazioni sanitarie ma percepiscono retribuzioni orarie e mensili abbondantemente al di sotto della soglia del lavoro povero. Da oltre 4 anni i lavoratori stanno promuovendo scioperi e iniziative di lotta per rivendicare l’internalizzazione delle attività, la giusta retribuzione e il riconoscimento professionale. Diffusamente tale situazione è presente in tutta la pubblica amministrazione, nei beni culturali, nell’università, nelle scuole, nei ministeri, nel Senato e nella Camera dei Deputati, nei servizi di assistenza ai disabili erogati dagli enti locali, e nelle aziende del settore privato, nei magazzini della logistica, nei call center, nella Grande distribuzione e nel turismo. Luoghi dove i lavoratori sono costantemente sotto ricatto occupazionale a causa dei periodici cambi appalti, con conflitti locali che esplodono periodicamente per rivendicare retribuzioni più eque e la stabilità del lavoro. Tutte lavoratrici e lavoratori condannate a uscire dal mondo del lavoro oltre i 70 anni, con pensioni ben al di sotto della soglia di povertà a causa dei rapporti di lavoro part-time imposti dalle società appaltatrici e delle basse retribuzioni.
La scommessa dovrà essere connettere efficacemente questi luoghi di lavoro attorno ad una piattaforma comune che rivendichi la stabilizzazione e l’internalizzazione di tutto il personale in appalto nella pubblica amministrazione ovvero presso il committente privato, nonché il giusto riconoscimento professionale ed economico per il lavoro svolto e condizioni economiche e normative non inferiori a quelle applicate al personale dipendente del committente che svolge le medesime mansioni o mansioni equivalenti. All’interno di una alleanza sociale più ampia e in connessione con percorsi di lotta che rivendicano reddito, salario, casa, servizi.
Domenico Teramo – COBAS Confederazione dei comitati di base