EGITTO LA SCURE DEL REGIME

EGITTO, LA SCURE del REGIME sulla rivolta del 2011. Confrontandoci con il compagni e le compagne kurde conosciute durante le iniziative di questi mesi, duranti il confronto emerge sempre questo dato : Dall’inizio delle “primavere arabe” quella del Rojava è l’unico processo nel quale si sia determinato un ritorno dell’autoritarismo. Le notizie delle condanne ai militanti e alle militanti di Piazza Tahir vanno al di là della repressione ordinaria cui ci hanno abiutato le storie dal medioriente.  Le condanne inoltre seguono di pochissimo l‘assassinio di persone nel corso delle manifestazioni, tutte pacifiche, che hanno voluto ricordare le rivolte di Piazza che accellerarono la cacciata di Mubarak.

La CORRISPONDENZA DI RADIO ONDA D’URTO

Ricostruiamo le notizie delle condanne shock dagli articoli main stream.


Egitto: ergastolo per 230 attivisti liberal, per la rivolta a Tahrir. Sentenza schock di un tribunale del Cairo

«Oggi, con 230 di noi condannati all’ergastolo, è come se Shaimaa fosse morta due volte» dice tra i denti l’attivista Mansour mettendo in relazione la pesantissima sentenza pronunciata stamattina dai giudici del Cairo a Shaimaa al Sabbagh, la 33enne militante socialista uccisa dalla polizia egiziana il 24 gennaio scorso mentre manifestava pacificamente in memoria dei martiri della rivoluzione contro Mubarak. Dal 2011 Mansour non ha perso una protesta e conosce bene Ahmed Douma, uno degli attivisti giudicato colpevole di aver partecipato a scontri con le forze di sicurezza vicino a piazza Tahrir al punto da dover pagare con il carcere a vita. La restaurazione è compiuta? «Forse è peggio di prima, perchè il regime sa che esistiamo, sa cosa possiamo fare e ha paura di noi».

Le 230 condanne all’ergastolo (più un’ammenda di circa due milioni di euro) appena emesse dal Tribunale del Cairo (ci sono anche 39 minorenni che hanno avuto 10 anni di prigione) sono tutte appellabili, ma lasciano l’Egitto di sasso, perché rappresentano il più pesante pronunciamento giudiziario degli ultimi anni contro l’opposizione laica. Finora le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty a Human Rights Watch, avevano denunciato la feroce repressione dei Fratelli Musulmani (contro i cui simpatizzanti solo due giorni fa sono state pronunciate 183 sentenze di morte). L’assassinio di Shaimaa al Sabbagh è stato percepito da tutti come un giro di boa, perchè la ragazza partecipava a un corteo indipendente da quello dei partiti islamisti organizzato per il 25 gennaio e non poteva dunque essere in alcun modo associata alla minaccia terrorista che secondo il presidente Sisi “giustificherebbe” la sospensione dello stato di diritto (il nuovo regime ha messo fuori legge i Fratelli Musulmani e dichiarato il movimento fondato da Hassan al Banna un gruppo terrorista).

Il clima è pesante al Cairo. Le cattive notizie si rincorrono senza tregua. Il bilancio dell’ultima settimana comprende almeno 50 soldati morti in Sinai, 3 poliziotti uccisi, decine di arresti (da metà 2013 a oggi sono state arrestate 41 mila persone, 29 mila delle quali legate ai Fratelli Musulmani), l’omicidio di Shaimaa al Sabbagh, 183 condanne a morte (che si sommano alle circa 600 dello scorso anno), lo scarceramento di Mubarak e dei suoi figli, 230 ergastoli. Sullo sfondo, un paese in guerra contro gli jihadisti del Sinai, contro la disocuppazione dilagante e il rincaro dei prezzi, contro i propri fantasmi.

In che direzione si sta muovendo Sisi che il 9 e 10 febbraio prossimo incontrerà al Cairo il presidente russo Putin, grande nemico dell’islam politico ma anche di qualsiasi forma di dissenso? Di certo il potentissimo ex ministro della difesa autore della defenestrazione del predecessore Morsi ha voluto chiudere il contenzioso con la tv di Doha al Jazeera liberando due dei suoi giornalisti detenuti per 400 giorni con l’accusa di “spionaggio a favore dei Fratelli Musulmani”. Il secondo reporter, Fadel Fahmy, ha lasciato la cella come già l’australiano Peter Greste rispedito in patria domenica (resta invece incerta la sorte del producer Baher Mohamed che, essendo egiziano, non rientra nei dettami del decreto presidenziale del 12 novembre). Dietro il cambio di marcia c’è sicuramente il riposizionamento delle forze in campo nella regione, con il lieve riavvicinamento tra Egitto e Qatar mediato dal defunto re saudita (pare che il nuovo sovrano potrebbe essere più vicino a Qatar e Turchia ma comunque il Golfo è in movimento). Ad aver persuaso Sisi a rilasciare i giornalisti potrebbe esserci anche la potente campagna internazionale accesasi in loro favore, un spot negativissimo per l’Egitto che ha quanto mai bisogno del supporto del mondo sia sul piano economico che su quello del terrorismo in Sinai.

Quanto sta accadendo dentro al paese però, è la vera cifra per leggere le intenzioni del regime. Più volte nelle settimane scorse Sisi ha dichiarato di voler a un certo punto “rivedere” le migliaia di arresti che da un anno e mezzo intasano le prigioni egiziane. A Davos, di fronte a una platea internazionale interessata agli sviluppi egiziani in virtù di potenziali investimenti economici futuri, il presidente ha ammesso di non guidare un paese rispettoso dei diritti umani ma ha chiesto tempo per aggiustare le cose. Oggi la valanga di condanne all’ergastolo (in Egitto significano 25 anni di reclusione) per presunte violenze durante gli scontri di dicembre 2011 (quando a guidare la transizione c’era il Consiglio Superiore delle Forze Armate) getta un’ombra sinistra sulle sue intenzioni.

Tra le 230 sentenze a vita c’è quella di Ahmed Douma, uno dei leader della rivoluzione di piazza Tahrir accusato come gli altri di detenzione di armi bianche, attacco a militari e poliziotti, incendio di un edificio governativo.
Ad essere sul banco degli imputati insomma non è più solo il movimento dei Fratelli Musulmani, rei, a detta di quasi tutto il paese, di essersi avidamente accaparrati il potere conquistato e le urne e di mirare all’islamizzazione della società. Sul banco degli imputati sembra esserci oggi tutta la rivoluzione di Tahrir (a cui i Fratelli Musulmani si unirono solo in un secondo momento) e non tanto per nostalgia di Mubarak, la cui cacciata fu di fatto favorita dall’esercito (che non amava i suoi due figli “civili” e men che mai la ristretta cerchia di business men con cui da dieci anni si accompagnava l’ex Faraone). A guidare la retromarcia egiziana pare essere, ancora una volta, la volontà dei generali di controllare il paese nella convinzione che continui ad aver bisogno di un grande padre-custode incapace com’è (e come, dice Sisi, sarà per almeno altri 20 anni) di camminare sui suoi piedi.

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