NOTE sul JOBS ACT

 matteo-renzi1(Legge Delega 10/12/2014 e Decreti Attuativi 24/12/2014)

Una schifezza è una schifezza, e, per quanto la si titoli in inglese e la si declami come rivoluzione copernicana, resta una schifezza.
Ci riferiamo al cosiddetto Jobs Act, la legge delega approvata definitivamente in Senato il 3 dicembre 2014, con un centro storico completamente blindato in un grigio pomeriggio romano accompagnato da scrosci d’acqua e da manganellate generosamente distribuite contro centinaia di manifestanti convocati a tambur battente dai Cobas, dal sindacalismo conflittuale e dai Laboratori per lo sciopero sociale (che già contro il Jobs Act avevano scioperato il 14 novembre).
Quella quindi promulgata è la Legge 10/12/2014, n.183, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 290 del 15/12/2014, entrata in vigore il 16/12/2014, con la seguente sottodicitura “recante deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e le politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”.

Entro sei mesi dall’entrata in vigore del Jobs Act devono essere approvati 5 o 6 decreti attuativi delle deleghe in esso contenute, deleghe riguardanti gli argomenti oggetto della sottodicitura.
Ogni decreto attuativo, prima di entrare in vigore, viene sottoposto al vaglio delle commissioni lavoro di Camera e Senato, che hanno 30 giorni per formulare rilievi e osservazioni che però non hanno alcun carattere vincolante per il governo.
La legge delega n. 183, consta di un unico articolo e di 15 commi, ove sono esposte per linee piuttosto generiche le intenzioni secondo cui il governo intende legiferare successivamente.

Irenzimatteol meccanismo della delega, insieme all’arma della fiducia, su cui tanti giuristi hanno giustamente sollevato dubbi di costituzionalità, ha dunque consentito al governo di bruciare le tappe e muoversi con assoluta disinvoltura , come mostrano i primi due decreti attuativi, confezionati dal velocista Renzi solo 21 giorni dopo l’approvazione del Senato e 8 giorni dopo l’entrata in vigore della legge, presentati in pompa magna alla vigilia di Natale: quello sugli ammortizzatori sociali e quello sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (che in realtà cancella definitivamente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori).

Lo scopo dichiarato da parte di Renzi, Poletti&C. – di fronte alla drammatica situazione economica, con un Pil in costante discesa dal 2008, una produzione industriale diminuita negli ultimi sei anni del 25% e soprattutto con una disoccupazione al 13,4% (al 14,4% se contiamo anche la cassintegrazione), che a livello giovanile s’impenna al 43,9% (dati Istat novembre 2014) – è quello di rilanciare l’occupazione, particolarmente quella giovanile e riformare un mercato del lavoro, in cui le assunzioni a tempo indeterminato sono da tempo bloccate; infatti, nonostante che fino a 7/10 anni fa la forza lavoro impiegata a tempo determinato rappresentasse appena poco più del 10% del totale degli occupati (fanalino di coda in Europa), nei successivi anni di crisi le nuove assunzioni a tempo determinato (compresi i contratti di apprendistato, i co.co.co.,….) sono arrivate nel 2010 aall’81,8% del totale (contro il 18,2% dei tempi indeterminati), per salire ancora nel 2013 all’83,6% (di fronte al 16,4 dei tempi indeterminati); e, per sovrappiù, dai recentissimi dati del Centro studi della Confindustria, pubblicati sul Sole 24 Ore dello 03/01/2015. si ricava che dal 2007 al 2014, mentre l’occupazione dei lavoratori over 55 è aumentata (forzatamente a causa dell’incremento dell’età pensionabile) di 1 milione e 100 mila unità, quella dei 25-34enni è diminuita di 1.600.000.
Perciò Renzi, dopo aver cancellato l’Irap (5,7 miliardi dal 2015 al 2017) sul costo del lavoro per gli imprenditori e regalato loro la decontribuzione previdenziale (5 miliardi entro il 2017) per i primi tre anni di contratto dei nuovi assunti, confeziona l’ennesimo cadeau ai padroni con l’offerta di mano libera sui licenziamenti.

Il ragionamento del presidente del consiglio sarrebbe elementare, addirittura candido, se non fosse cinicamente ipocrita. “Abbiamo tolto agli imprendittori ogni alibi per non fare assunzioni” così rePORTA A PORTAcita ossessivamente il mantra secondo Matteo, rafforzato da Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, quando più prosaicamente afferma (intervista a Il Sole 24 Ore del 27/12/2014) che il decreto della vigilia di Natale garantisce costi certi alle imprese (per quel che riguarda i licenziamenti).

Sembra incredibile; un comune mortale pensa che, di fronte a gravi crisi occupazionali, per dar lavoro ai giovani, offrire loro un reddito e garantire uno sviluppo equilibrato della società, sia auspicabile diminuire per legge l’orario di lavoro e/o l’età pensionabile, nonché pianificare un programma di lavori pubblici tanto necessari in un Paese assediato da inquinamento, devastazione territoriale, speculazione edilizia, corruzione e ruberie di politici e loro sodali, ma Renzi no.
Renzi, che (a differenza dei vari presidenti del consiglio di centrosinistra del passato, Prodi, D’Alema, Amato, ancora Prodi, Letta) si dichiara apertamente di “sinistra” (le sue credenziali passate: è stato boy scout, quelle attuali: ha portato il PD ad aderire al Partito del Socialismo Europeo), invece, dopo aver definito eroi gli imprenditori e aver organizzato con tali soggetti cene per “autofinanziarsi” da 1.000 euro a commensale, dopo aver riempito le loro tasche con valanghe di euro pubblici, oggi regala loro il licenziamento facile, premessa di un nuovo miracolo italiano.
Quindi dal varo del Jobs Act in avanti i datori di lavoro non assumeranno con lo scopo di incrementare le loro attività produttive, ma perchè, secondo Matteo, potranno più facilmente licenziare; mentre i futuri lavoratori e le future lavoratrici vedranno finalmente realizzato il sogno di lavorare senza diritti per poter essere più facilmente licenziati. E continuano a chiamarla lotta alla precarietà…

Ma in questo collateralismo filopadronale -per la gioia della colomba Squinzi e del falco Bombassei, che mai avevano osato inserire nel loro programma per la scalata al vertice di Confindustria la cancellazione dell’art. 18- Renzi ha le spalle ampiamene coperte dalla più alta figura istituzionale, nonché vecchio padre nobile della “sinistra migliorista”, Giorgio Napolitano, che anche nella sua ultima uscita pubblica, prima del commiato finale, il 16 dicembre, davanti alle più alte cariche dello stato, ha tenuto a lodare l’operato del governo ed in modo particolare la messa in atto “dell’ampia riforma del mercato del lavoro” che non va ridotta alla questione dell’articolo 18.
m1atteo-renziMa rispetto al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che pure nel mese di dicembre ha visto numerose levate di scudi contrarie da parte di diverse forze politiche e sindacali vicine o addirittura interne allo stesso partito di Renzi, nonché uno sciopero generale di Cgil, Uil (e Ugl) a babbo morto (9 giorni dopo che il governo aveva incassato la fiducia finale sulla delega del Jobs Act), c’è stato sin dall’inizio un errore di fondo, che ha accomunato tutte le forze dell’opposizione di sua maestà, consistente nel ritenere che il progetto del governo, per quanto criticabile, comunque, alla fine del percorso di tre anni, garantisse la stabilizzazione del lavoro ed il consolidamento dei diritti (le famigerate tutele crescenti). Per dire: lo stesso Pippo Civati, in questo periodo acerrimo contestatore delle politiche di Renzi, nella sua Leopolda all’incontrario (una sorta di convention programmatica per una sinistra repubblicana tenutasi a Bologna il 13 dicembre 2014) parlava della necessità di un nuovo welfare fondato sul reddito minimo garantito e sul contratto a tutele crescenti.
Quindi solo un misero equivoco, un abbaglio semantico che avrebbe irretito le varie componenti della sinistra governista, compatibilista e nostalgica della concertazione (quasi) perduta?

Ma in ogni modo accettare aprioristicamente un processo di “cambiamento”, purchè si riesca a governarlo (soprattutto la Cgil e Camusso) o perchè bisogna trovare nuove sponde politiche (la Fiom e Landini) o perchè affascinati dal travolgente successo elettorale delle europee (i vari Fassina, Cuperlo, Bersani,…), ha consentito di evitare di porsi fin dall’inizio la semplice domanda: “Ma perchè tre anni per far crescere le tutele di un contratto a tempo indeterminato?” e l’implicita risposta: “Non sono per caso questi tre anni un interminabile periodo di prova in cui il lavoratore e la lavoratrice sono in completa balia del padrone?”.
Ora con la pubblicazione dello schema di decreto si scopre che c’è di peggio, che non solo non cresce nessuna tutela, ma che si realizza un tipo di contratto a tempo indeterminato in cui puoi essere licenziato in qualsiasi momento, anche dopo che son trascorsi oltre tre anni dall’assunzione.

In effetti alla fine del triennio non c’è alcuna stabilizzazione, né alcuna giusta causa che tenga, ricattabile eri all’inizio, ricattabile continui ad esssere ora. Eppure il governo ci tiene a sottolineare che da gennaio il contratto a tempo determinato costerà molto di più di quello indeterminato, e che quindi quest’ultimo andrà alla grande; gli regge il sacco l’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, organo indipendente (ma da chi?) che stima prudenzialmente 800.000 nuove assunzioni per il 2015, ma che spera apertamente che ne siano molte di più..
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In realtà il governo bara in maniera spudorata, ricordiamoci che è quello stesso governo che, neanche un mese dopo il suo insediamento, ha varato il cosiddetto decreto Poletti, il DL 20 marzo 2014, n. 34, che ha consentito piena discrezionalità ai padroni nella gestione dei contratti a tempo determinato che da allora non contengono più l’obbligo della motivazione e possono essere reiterati più volte nel periodo di tre anni (che pare essere l’arco temporale su cui si basa la politica del lavoro di Renzi) senza essere trasformati a tempo indeterminato.
Quindi massima estensione dei contratti a tempo determinato sinonimo di precarietà eterna ed ora massima estensione di contratti a tempo indeterminato con licenziamenti iperfacilitati. Non c’è che dire: proprio un bel cocktail, ove non si capisce quale sia la padella e quale la brace.
Ma vediamo più da vicino cosa contiene lo schema di decreto legislativo recante dissposizioni in materia di contratto di lavoro a tutele crescenti, in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183, che consta di 12 articoli.
Da una lettura complessiva quello che balza agli occhi immediatamente è la cancellazione sostanziale dell’art. 18; né basta lo zuccherino dell’art. 2 che mantiene la reintegrazione nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori, nulli ed intimati in forma orale. In realtà queste garanzie erano previste ancor prima del varo dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 20/05/1970), dalla Legge 604/1966, nonché da codice civile, costituzione e varie convenzioni internazionali. Vogliamo proprio vedere quali saranno quei datori di lavoro che licenzieranno i propri dipendenti per motivazioni politiche, sindacali, sessuali, religiose, oppure esclusivamente con la fatidica comunicazione orale: “sei licenziato”.

Già Elsa Fornero, ministra del Lavoro del governo Monti, con la Legge 92/2012 aveva arrecato un duro colpo all’art.18, eliminando quasi del tutto il reintegro per i licenziamenti economici (tranne che per i casi di manifesta insussistenza); mentre per i licenziamenti disciplinari lasciava ancora al giudice, anche se non per molti casi, una certa libertà di scelta tra reintegro e risarcimento.

Ma il recente schema di decreto attuativo va ben oltre, perchè se la Legge Fornero era una controriforma, quello di Renzi, per restare sul terreno del linguaggio immaginifico tanto caro al presidente del consiglio, costituisce una controrivoluzione tolemaica.

Infatti il reintegro nel posto di lavoro è consentito, per i licenziamenti disciplinari, esclusivamente nel caso in cui “sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (art. 3 Dlgs Jobs Act). In tutti gli altri casi c’è solo il risarcimento monetario, questo sì crescente in rapporto all’anzianità lavorativa.
Tra l’altro l’obbrobrio giuridico consiste nel riconoscere che il licenziamento è illegittimo, che non c’è assolutamente proporzione tra l’infrazione eventualmente commessa e la conseguente rottura del rapporto di lavoro, insomma che è stata compiuta una palese ingiustizia nei confronti del lavoratore o della lavoratrice in questione, ma che nel contempo a questa ingiustizia non si può porre rimedio.
Renzi è stato molto esplicito nel perseguire il suo obiettivo: impedire ogni discrezionalità da parte del giudice; quindi al diritto del lavoro -nato negli anni ’70 per riequilibrare a livello giudiziario i rapporti di forza tra lavoratori e padroni, troppo squilibrati a favore di quest’ultimi viene messa la museruola, i giudici devono fare a meno del “libero convincimento”, devono solo seguire lo stretto rigore della norma; ovviamente ben altra libertà di manovra è consentita a collegi giudicanti quando sono in in ballo il potere e i soldi della Tyssen Krupp a Torino, della Eternit a Casale Monferrato, della Montedison a Bussi, della Marlene a Praia a Mare…. E’ la logica del capitalismo, bellezza!
Ed il capitalismo monetizza tutto: salute, garanzie, diritti, ma comunque non ti regala niente.

Quindi, ricapitolando: niente reintegro per i licenziamenti disciplinari (se non quando è appurata l’insussistenza del fatto materiale contestato (onere che tocca al lavoratore), niente reintegro per i licenziamenti economici sia individauali che collettivi.
Ed è questa la vera novità che Renzi ha tirato fuori all’ultimo minuto (cfr. le ultime due righe dell’art. 10) e che ha fatto infuriare particolarmente i sindacati confederali e la “sinistra” Pd. Infatti, mentre, nei giorni immediatamente precedenti l’uscita del decreto, centrodestra e centrosinistra interni al governo si accapigliavano sulla proposta dell’opting out (sponsorizzata soprattutto da Sacconi), per cui l’azienda, condannata a riassumere il lavoratore da una sentenza del giudice, invece della riassunzione poteva optare per una maxi indennizzo (proposta che invece nel decreto non è stata recepita), sono rimasti tutti basiti di fronte al coniglio tirato fuori dal cilindro del prestigiatore Renzi. Anche e soprattutto sono i padroni quelli ad essere rimasti positivamente sbalorditi da questa trovata renzian-polettiana.

Certamente i sindacati sono penalizzati da questa bella pensata dei licenziamenti collettivi equiparati a quelli individuali, perchè vedranno ulteriormente ridotti i loro margini di contrattazione, manovra e, in ultima analisi, di potere, ma ancor più penalizzati risultano i lavoratori, che si vedranno privati di una serie di garanzie e criteri obiettivi (la rotazione, l’anzianità, i carichi di famiglia) con cui almeno limitare i danni nelle vertenze attuali e future contro i già durissimi processi di ristrutturazione in atto, carichi di esuberi, mobilità, riduzioni salariali, demansionamenti,….
E d’altra parte Renzi, che sempre più incarna la figura dell’uomo solo (ma con uno stuolo di collaboratori obbedienti) al comando, se da una parte ridimensiona il ruolo dei sindacati e diminuisce i fondi per i contratti di solidarietà (l’integrazione della perdita salariale, già decurtata nel 2014 dall’80% al 70%, diminuisce ancora fino al 60% nel 2015), dall’altra punta direttamente a condurre in porto tutta una serie di crisi industriali in corso, dall’Electrolux all’Alitalia, dalla Fiat di Termini Imerese alla Lucchini di Piombino, dalla Thyssen Krupp di Terni all’Ilva di Taranto, dall’Arvedi di Trieste all’Irisbus di Villa Ufita,… Vertenze risolte con esuberi, riconversioni un po’ fantasiose, svendite, tagli di salari, tagli di personale, per “efficientare” le aziende e renderle appetibili per far partire un vasto piano di privatizzazioni che, cominciando da poste e ferrovie, dovrebbe consentire nel 2015 di fare cassa ed alleggerire il debito pubblico. L’importante per il presidente del consiglio è mostrare la sua indispensabilità, sostituendosi anche ai sindacati ridotti a pure suppellettili in una dinamica “vertenziale” ormai agita a livello individuale, in cui il lavoratore è solo, dall’altra parte invece c’è il padrone e, con lui, Renzi.

Ma, se ritorniamo alla monetizzazione crescente che caratterizza il decreto del Jobs Act, scopriamo che i padroni, pur cacciando qualche euro, ci guadagnno doppiamente, dal punto di vista del controllo totale sulla forza lavoro che possono spremere a proprio piacimento, gettandola via senza ormai alcuna remora politica e giuridica quando non la ritengono più utile, ma anche per quel che concerne la vil pecunia, in quanto i risarcimenti da versare per i neoassunti/futuri licenziati sono globalmente inferiori ai finanziamenti ricevuti dal governo con il taglio dell’Irap e la decontribuzione triennale per i neoassunti (per cui, tra l’altro, il neodirettore dell’INPS, Tito Boeri, prevede ci siano problemi di bilancio per il megaente previdenziale).

Allora, per i licenziamenti economici (indivividuali e collettivi) e disciplinari (tranne in caso di insussistenza materiale del fatto) riconosciuti illegittimi, i risarcimenti sono pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità; considerando un lavoratore con uno stipendio lordo annuo di 25.000 euro, per il licenziamento dopo un anno dall’assunzione il datore di lavoro versa un indennizzo (4 mensilità) di 7.692 euro più un ticket licenziamento di 490 euro per un totale di 8.182 euro, ma intanto lo stato gli ha elargito 7.823 euro di sgravi contributivi e 1.278 euro di taglio Irap per un totale di 9.153 euro, con un risparmio totale di 971 euro (dati di fonte Uil).

Le piccole e medie imprese (fino ai 15 dipendenti) versano un indennizzo risarcitorio, a seconda dell’anzianità, da 1 a 6 mensilità (in precedenza era da due e mezzo a sei mensilità).

Per i licenziamenti viziati da errori formali il risarcimento è pari ad una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minmo di 2 ad un massimo di 12 (in precedenza l’indennizzo era compreso tra sei e dodici mensilità).

Cambia anche la conciliazione, prima era obbligatoria ed era precedente il licenziamento, si svolgeva esclusivamente presso la Dtl (Direzione territoriale del lavoro), serviva anche a cercare un accordo tra le parti e talora riusciva ad evitare il licenziamento; ora diviene facoltativa, si può svolgere in varie sedi (Dtl, sedi sindacali, enti bilaterali,…), si realizza quando il licenziamento è ormai partito e serve a trovare un accordo, fuori dall’ambito giudiziario, sull’eventuale indennizzo nella misura di una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 2 a un massimo di 18 mensilità, le somme pagate dal datore di lavoro sono esenti da tasse e contributi.
Vengono sottoposti alla disciplina del contratto a tutele crescenti anche i dipendenti di partiti e sindacati, che invece in precedenza non usufruivano delle tutele dell’art. 18.
C’è infine (art. 11) il contratto di ricollocazione, per cui sono previsti 18 milioni di euro (+ altri 32) per il 2015 e 20 milioni per il 2016 di finanziamenti pubblici. Il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto di ricevere un voucher dal Centro per l’impiego territorialmente competente, che può presentare ad un’agenzia per il lavoro (pubblica o privata), con la quale può sottoscrivere un contratto di ricollocazione consistente nell’aiuto alla ricerca di una nuova occupazione, nella possibilità di frequentare corsi di addestramento o riqualificazione professionale; Occorre la massima disponibilità del lavoratore a cooperare con l’agenzia, egli non può rifiutare di frequentare i corsi e le offerte di lavoro adeguate (non meglio specificate) pena la perdita del voucher e la rescissione dello stesso contratto di ricollocazione; in tal modo si è in completa balia dell’agenzia e bisogna essere ipermobili e iperflessibili, il tutto sempre per garantire il massimo dell’occupazione con tutele crescenti.

Siamo alla terza “riforma” del mercato del lavoro in 4 anni, dopo il cosiddetto collegato lavoro dello 04/11/2010 (Legge 183, anch’essa; evidentemente deve essere un numero maledetto), la Legge 92 del 28/06/2012 del governo Monti/Fornero, con il Jobs Act si chiude drasticamente il percorso dell’azzeramento dell’art. 18, arrivando alla cancellazione giuridica e quindi politica e fattuale del concetto di giusta causa necessaria per procedere ai licenziamenti.
Renzi ed i suoi sodali con il decreto di Natale forniscono ai padroni la possibilità di operare a costo zero un grande progressivo ricambio della mano d’opera nelle proprie aziende, sostituendo alle vecchie maestranze cariche di anni ed in parte anche di diritti e con salari non del tutto risibili, giovani senza diritti, iperricattabili, a sottosalario, licenziabili in ogni momento.
Che poi questo decreto sia foriero di ulteriori negativi sviluppi lo possiamo dedurre da anticipazioni che si intravedono anche dalla lettura del generico testo della legge delega, ove sono espresse le intenzioni di procedere allo svuotamento di altri due articoli dello Statuto dei Lavoratori, cioè l’art. 4, che vieta controlli a distanza sul lavoratore tramite strumenti audiovisivi, pur se i controlli verrebbero effettuati sui macchinari e non sui lavoratori (come se i macchinari operassero motu proprio!); e l’art. 13, in quanto si legalizza il demansionamento, inquadrando anche permanentemente i lavoratori in una qualifica inferiore a quella per cui sono stati assunti (anche se a paga invariata).
Un’altra questione è stata sollevata all’indomani dell’uscita del decreto attuativo, se il campo di applicazione comprendesse anche i dipendenti pubblici. Alla fine il talebano Pietro Ichino è rimasto da solo a sostenere la validità della sua estensione giuridica anche ai comparti del Pubblico Impiego, però troppi erano i cavilli giuridici ostativi e quindi si è soprasseduto. Ma il governo ha colto la palla al balzo e lo stesso Renzi ha spiegato che se ne riparlerà a febbraio nella discussione parlamentare sulla proposta di “riforma” della Pubblica Amministrazione della ministra Madia; nel contempo il presidente del consiglio ha detto esplicitamente di essere favorevole al licenziamento dei dipendenti pubblici “fannulloni”, magari ritirando da un polveroso cassetto la “riforma” Brunetta mai veramente applicata nel Pubblico Impiego.

E probabilmente ancora più preoccupante è il decreto attuativo in gestazione concernente il riordino delle attività ispettive, si ipotizza infatti –per garantire la certezza dei diritti degli imprenditori, onde evitare ispezioni ripetute da parte di una pluralità di enti quali INPS, INAIL, ASL, che potrebbero assumere per i padroni carattere “vessatorio”- la riunificazione delle attività ispettive in un unico ente; è abbastanza facile prevedere una drastica diminuzione dei controlli (già attualmente tutt’altro che frequenti) in fabbriche e cantieri ed una diminuzione delle misure di sicurezza e delle garanzie ambientali per i lavoratori.

Infine poi sono le stesse teste d’uovo dell’entourage di Renzi che si spingono ad ipotizzare -per diritti, contratti e salari- scenari da Far West; emblematico è il caso di Yoram Gutgeld, consigliere economico di palazzo Chigi renzizzato, che, in un intervista a la Repubblica del 28/12/2014, dopo aver ammesso chiaramente che con il Jobs Act lo scarto fra il costo del lavoro all’azienda ed il salario in busta paga si riduce del 70%, rilancia la necessità della prevalente importanza del contratto aziendale su quello nazionale, è partendo dal livello aziendale che va scritta la futura legge sulla rappresentanza ed è nella contrattazione decentrata che si attibuisce il giusto peso ai salari, aumentandoli o riducendoli a seconda dell’andamento del ciclo dei profitti aziendali.
Non è perciò un caso se il Jobs Act, insieme alla Buona Scuola e al decreto Sblocca Italia, costituisca l’asse portante dell’intera politica economico-sociale del governo Renzi.
Ma il decreto che cancella l’art. 18, pur essendo il più rilevante politicamente, non è l’unico contenuto nel pacco natalizio che Renzi ci ha graziosamente offerto.
C’è anche il decreto sugli ammortizzatori sociali, che consta di ben 16 articoli. Ne parliamo brevemente, sia per esigenze di spazio, sia perchè in alcune parti è parecchio dubbia la copertura finanziaria, per cui gioco forza, dopo il passaggio alle commissioni lavoro di Camera e Senato, è candidato a diversi cambiamenti.
Il tentativo “ambizoso” e dichiarato è quello di limitare l’accesso alla cassintegrazione, consentito solo dopo aver esperito tutte le possibilità di riduzione del personale, e renderlo impossibile in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale o di un ramo di essa.
Il senso di questo decreto è però anche quello di tamponare situazioni di crescente disperazione sociale, ma il risultato è simile al tentativo del bambino che cerca di svuotare il mare con il suo secchiello bucato.

Nasce la NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego): i commentatori benevoli (per non dire di molto peggio) verso Renzi hanno sottolineato la durata raddoppiata, 2 anni, nei confronti della precedente ASpI istituita da Elsa Fornero, che era valida un anno per gli under 55 e 18 mesi per gli ultra cinquantacinquenni.
La NASpI, che entrerà in vigore dal 1° maggio 2015, consiste in un’indennità garantita a chi rimane involontariamente senza lavoro e ha accreditate nei quattro anni precedenti almeno 13 settimane di contribuzione e deve aver lavorato almeno 18 giorni nell’anno che precede la disoccupazione.
La NASpI è rapportata nella misura del 75% alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni se l’importo mensile di questa non supera i 1.195 euro lordi; se l’importo è superiore, al 75% di 1.195 euro si aggiunge il 25% della differenza tra 1.195 e la retribuzione effettiva, in ogni caso non può superare i 1.300 euro lordi; dall’inizio del quinto mese di fruizione diminuisce del 3%, dal 1° gennaio 2016 la diminuzione del 3% si applica dall’inizio del quarto mese, ma con la relazione tecnica di accompagno nella trasmissione del decreto attuativo alle commissioni lavoro di Camera e Senato (13 gennaio 2015) scopriamo che la diminuzione del 3% dall’inizio del quarto mese entra in funzione da subito (1° maggio 2015); dal 1° gennaio del 2017 la durata della prestazione si riduce fino ad un massimo di 78 settimane, cioè 18 mesi.
L’erogazione della NASpI è subordinata alla regolare partecipazione dei beneficiari alle politiche attive proposte dai servizi per l’impiego (corsi di riqualificazione et similia).
A scanso di equivoci va in ogni modo chiarito che la durata di erogazione della NASpI per 2 anni ed anche quella dal 2017 per 18 mesi va comunque intesa come durata massima, l’importo e la durata di erogazione dell’indennità infatti dipendono da quante settimane di lavoro sono state effettuate e quante di contribuzione sono state effettivamente accreditate al lavoratore nel quadriennio precedente alla perdita dell’impiego.
Anche in questo caso si scopre l’ennesimo bluff dell’illusionista Renzi, che, soprattutto rivolgendosi ai giovani, continua a promettere reddito minimo di cittadinanza, garanzie universali, nuovo welfare inclusivo, ma che, ancora una volta, ad una verifica fattuale, svaniscono nel nulla; oltretutto sempre dalla relazione di accompagno scopriamo che la platea dei possibili beneficiari “è pari a circa 1.540.000 lavoratori”.
Poi l’ulteriore specchietto per le allodole di Renzi, una volta esaurita la NASpI, per gli sfigati, i più poveri ed irricollocabili, arriva l’AsDi (Assegno di Disoccupazione) per un massimo di 6 mesi e in misura pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito ai fini della NASpI, purchè non superiore all’entità dell’assegno sociale; ma, tanto per cambiare, l’erogazione di tale elemosina è subordinata all’adesione del beneficiario alle iniziative personalizzate predisposte dai servizi per l’impiego. l
Infine Renzi non si dimentica dei Co.co.co., per loro è virtualmente già scattata dal 1° gennaio 2015 la Dis-Coll, che sostituisce la vecchia una tantum prevista a favore dei Collaboratori con un reddito annuo non superiore nel 2013 a 20.220 euro, che abbiano accreditati nell’anno precedente almeno 3 mesi di contributi; i criteri e gli importi sono uguali a quelli dell’indennità della NASpI, anche se la durata massima è fortemente accorciata, non più di 6 mesi; e la platea dei beneficiari è decisamente ristretta causa le compatibilità finanziarie, non più di 75/80.000 rispetto ai 296.000 in possesso dei requisiti per usufruire del sussidio.
La particolarità della Dis-Coll sta proprio nella sua entrata in vigore immediata, che ancora una volta contraddice le promesse di Renzi, che aveva dichiarato urbi et orbi la necessità di ridurre al massimo, se non abolire del tutto, le 46 tipologie di contratti di lavoro precari e a tempo determinato, a cominciare proprio dai Co.co.co.

Vedremo comunque quali sorprese ci riserberà ancora in futuro il Matteo della Provvidenza.
Mala tempora cucurrunt. La situazione politica è davvero desolante.
Ma non possiamo fare a meno di proseguire, rafforzandola, per la via del conflitto sociale, politico e sindacale. Certamente in tanti ci diranno che lottiamo contro i mulini a vento.
Ma la nostra divisa è necessariamente la stessa: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”,“L’unica lotta che sicuramente si perde è quella che nemmeno si comincia”. Altrimenti sarebbe ancora molto peggio.

P. S. 1: Come si evince da alcuni passaggi precedenti i Decreti attuativi della vigilia di Natale, dopo la bollinatura della Ragioneria generale dello stato, sono stati trasmessi il 13 gennaio alle Camere, per cui dal 13/01 scattano i 30 giorni entro i quali i membri delle commisioni lavoro di Camera e Senato possono fare le loro osservazioni non vincolanti. Il governo ascolterà gli autorevoli pareri, ma già si sa che nulla in sostanza cambierà.

Il confronto con la Ragioneria è stato piuttosto spigoloso, soprattutto intorno al decreto sui cosiddetti ammortizzatori sociali per via della traballante copertura finanziaria. Complessivamente per i provvedimenti in questione la copertura del 2015 è pari a 869 milioni (prelevati dai 2,2 miliardi previsti dalla Legge di Stabilità, che per la restante parte serviranno a pagare cassintegrazione e mobilità in deroga), che saliranno a 1,7 miliardi nel 2016, 1,9 nel 2017.

Ma comunque qualcosa è cambiato nei decreti attuativi nella diatriba con la Ragioneria generale, infatti l’art. 11 del decreto sul contratto “a tutele crescenti”, vale a dire quello che riguarda il contratto di ricollocazione (dopo il licenziamento), è stato spostato nell’altro decreto, quello sulla NASpI, perchè, per la sua specifica approvazione, deve passare anche al vaglio della Conferenza Stato-Regioni; ciò avrebbe rallentato l’iter del nuovo contratto. Renzi invece vuole far presto, perchè è convinto che gli imprenditori premano per l’approvazione veloce del nuovo modello di assunzioni a licenziamento facile garantito.

Ed infatti, nell’immediata vigilia dell’arrivo dei decreti alle Camere, Marchionne spara l’annuncio di 1.000 nuove assunzioni alla Fiat di Melfi prima a contratto interinale, ma, subito dopo l’approvazione del Jobs Act, a “tutele crescenti” e Landini applaude. Certo la tempistica è veramente un po’ sospetta.

P. S. 2: Per ultima, ma non perchè meno importante, anzi addirittura fondamentale, c’è la questione del campo di applicazione del contratto “a tutele crescenti”. La nuova norma varrà esclusivamente per coloro che saranno assunti a tempo indeterminato dopo che il decreto diventerà legge a tutti gli effetti. Mentre tutti/e coloro assunti in precedenza resteranno parzialmente tutelati dalla vecchia normativa con l’art. 18, seppur già depotenziato dalla legge Fornero del 2012.
Questo produrrà una profonda spaccatura nel merrcato del lavoro.
Soltanto tra qualche decina d’anni si arriverà ad un mercato del lavoro omogeneo? Dovrebbe essere così, se la norma resterà quella che, pressochè certamente, verrà varata entro un mese. Ma chi lo sa cosa ha in mente il governo, oltre la navigazione a vista?

Come non temere che tra qualche tempo, prendendo atto o, per meglio dire, prendendo a peretesto una contraddizione stridente, Renzi o chi per lui deciderà di estendere la nuova norma anche ai vecchi assunti? Sarebbe la reintroduzione del tanto vituperato egualitarismo, ma stavolta verso il basso. Del resto siamo in un periodo in cui le diseguaglianze sociali aumentano esponenzialmente, mentre i diritti universali precipitano per tutto il mondo del lavoro e le classi sociali subalterne.

Ma d’altra parte sempre nel contratto a tutele crescenti è previsto che le aziende che non superano attualmente i 15 dipendenti, se procederanno ad assunzioni che faranno loro superare i 15 addetti, alla totalità delle maestranze si applicherà la nuova norma, con l’azzeramento dei diritti normativi pregressi.
C’è quindi un surplus di garanzie fornite ai padroni, mentre si vuol far credere che si stanno costruendo grandi opportunità di lavoro e sviluppo per le giovani generazioni.
Renzi sta correndo a perdifiato verso il traguardo dell’approvazione della legge, in ciò spalleggiato da una claque mediatica senza precedenti; ormai è insorta la psicosi per cui tutto è fermo in vista della svolta imminente, i padroni non asssumono perchè aspettano il varo del Jobs Act, urge far presto.

Addirittura Tito Boeri, ancora coordinatore del pool di economisti de lavoce.info, in un ampio fondo economico su la Repubblica del 23/12/2014, ha scritto che nel novembre precedente le assunzioni a tempo indeterminato sono precipitate ed occorre che venga immediatamente varato un decreto purchessia perchè bisogna dare certezze agli imprenditori, ebbene il giorno seguente il governo vara i decreti attuativi del Jobs Act e contestualmente nomina Tito Boeri Presidente dell’INPS.
Mentre Marchionne, nell’annunciare le 1.000 assunzioni a Melfi, dichiara sempre a la Repubblica del 13/01/2015: “Io non assumo la gente per licenziarla. La assumo perchè ne ho bisogno per produrre. Ma non posso accollarmi a vita la responsabilità del loro futuro occupazionale. Il Jobs Act mi garantisce che un giorno, se dovessi farlo e mi auguro di no, le conseguenze sociali di una ristrutturazione non ricadrebbero solo sull’impresa o sui dipendenti”. Un modo appena ipocritamente velato per affermare il dominio totale del capitale sul lavoro, il lavoratore si usa, si spreme, si getta.
Siamo di fronte ad un salto all’indietro pauroso, alla prima parte del 900, quando ancora nelle fila del proletariato agricolo non si diffondevano i primi scioperi a rovescio e poi, con il passar degli anni si faceva strada la battaglia per l’imponibile della mano d’opera e gli elenchi anagrafici, o, nel secondo dopoguerra e con il ’68 e l’autunno caldo tra i lavoratori delle fabbriche e dei servizi emergeva la necessità della lotta per la giusta causa, l’illicenziabilità, l’art. 18.
Il guaio è che tutto questa schifezza annessa e connessa al Jobs Act viene fatta passare come l’ultima possibilità di salvezza, per garantire un futuro dignitoso ai giovani, ed il rischio sempre più concreto è quello di una profonda spaccatura intergenerazionale tra lavoratori, che renderà sempre più difficile costruire percorsi ed obiettivi di lotta comuni.

Eppure bisogna provarci, coloro che oggi godono delle residue garanzie delle vecchie norme, devono comunque comprendere che, con la divisione sociale introdotta forzosamente nel mondo del lavoro, sarà ancora più difficile immaginare di costruire grandi mobilitazioni per difendere diritti che hanno bisogno di grandi numeri e di grande unità da mettere in campo; né devono ritenersi al sicuro dal punto di vista della difesa legale, perchè, sviluppandosi nuove norme contrattuali, queste alla fine non potranno che pesare sfavorevolmente sui vecchi diritti anche nelle aule giudiziarie; devono anche temere che gli effetti nefasti del Jobs Act possono essere estesi legislativamente da un momento all’altro anche ai vecchi “garantiti”; possono, infine, per svariate ragioni, perdere il lavoro ed allora, per un’eventuale nuova assunzione, ricadrebbero automaticamente sotto la nuova normativa.

Occorre sforzarsi tutt* insieme, giovani e vecchi, stabili, precari e disoccupati, per trovare nuove forme di lotta, realizzando scambi di esperienze tra i vari posti di lavoro, e tra questi ed i territori circocostanti, investire la sfera completa delle questioni sociali, sindacali, politiche e culturali che ormai riguardano l’intera attività ed esistenza umana. Lo sciopero sociale del 14 novembre 2014 ha rappresentato un primo passo in questa direzione, ma assolutamente non basta, vanno collegati gli originali percorsi organizzativi che da lì sono nati, vanno difesi, potenziati, diffusi sui territori.

Comincia a circolare l’ipotesi di referendum abrogativo, valutiamola bene, dibattiamo nel merito approfonditamente, pur consapevoli di quanto negativo è stato il muro di silenzio con cui il potere, nelle sue varie articolazioni partitiche ed istiruzionali, ha affondato la vittoria del referendum sull’acqua.
Probabilmente da solo il referendum sul Jobs Act non riuscirebbe, ora come ora, neanche a superare la soglia delle firme, perciò dovrebbe essere necessario costruirgli attorno una grande coalizione di soggetti sociali, che si riconoscono in questa battaglia, ma sono anche portatori di istanze radicalmente antagoniste su questioni di grande rilevanza politico-sociale. Questioni come la scuola, come l’ambiente, come la casa sono oggi dirompenti. E’ possibile costruire su di esse, insieme alla questione lavoro, una campagna referendaria?

Verifichiamo se referendum abrogativi su Jobs Act, Sblocca Italia (ambiente), Buona Scuola di Renzi (se andrà in porto a fine febbraio) e decreto Lupi (che criminalizza le occupazioni di case), possono trovare la più ampia condivisione.
Ovviamente la campagna referendaria da sola non basta, se non riparte in fome nuove e dispiegate la conflittualità sociale che dobbiamo in tutti i modi cercare di alimentare, ma potrebbe costituire un ottimo volano per reimmergersi nella realtà sociale, suscitare nuovo entusiasmo e rinnovata partecipazione. Discutiamone.

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